PAPA FRANCESCO E LO SPORT

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Pubblichiamo questa bella intervista rilasciata da Papa Francesco al Vice direttore della Gazzetta dello Sport Pier Bergonzi.

Papa Francesco arriva puntuale. Entra nella sala dei ricevimenti della Residenza Santa Marta con passo sicuro e quel sorriso buono, caldo che lo caratterizza. Senza mascherina, tiene le distanze di sicurezza, ma accorcia quelle emotive e ti fa sentire a casa. Ci racconta della sua infanzia, di quando giocava a calcio con una "pelota de trapo", una palla di stracci. Bastava: per giocare e divertirsi. La sintesi del "suo" sport. La metafora del suo apostolato. Ci racconta il suo amore per lo sport di base, di quando andava con suo papà alla stadio per tifare San Lorenzo. Ci parla di Bartali e Maradona…, poi il discorso vola alto per toccare tutti i temi dello sport inteso come momento di crescita, come via ascetica per dare il meglio di sé. Della condanna esplicita al doping, dell’impegno, della necessità di fare squadra e dello sport come modello di inclusione contro la non-cultura degli scarti, tema che gli sta a cuore. Francesco risponde a tutte le nostre domande e alla fine ci consegna il documento più dettagliato e approfondito che un Papa abbia mai “scritto” sul nostro mondo. Il mondo dello sport.

Santo Padre, lei ha raccontato che da bambino andava allo stadio con i suoi genitori a vedere le partite di calcio.

 "Ricordo molto bene e con piacere quando, da bambino, con la mia famiglia andavamo allo stadio, El Gasómetro. Ho memoria, in modo particolare, del campionato del 1946, quello che il mio San Lorenzo vinse. Ricordo quelle giornate passate a vedere i calciatori giocare e la felicità di noi bambini quando tornavamo a casa: la gioia, la felicità sul volto, l’adrenalina nel sangue. Poi ho un altro ricordo, quello del pallone di stracci, la pelota de trapo: il cuoio costava e noi eravamo poveri, la gomma non era ancora così abituale, ma a noi bastava una palla di stracci per divertirci e fare, quasi, dei miracoli giocando nella piazzetta vicino a casa. Da piccolo mi piaceva il calcio, ma non ero tra i più bravi, anzi ero quello che in Argentina chiamano un "pata dura", letteralmente gamba dura. Per questo mi facevano sempre giocare in porta. Ma fare il portiere è stato per me una grande scuola di vita. Il portiere deve essere pronto a rispondere a pericoli che possono arrivare da ogni parte… E ho giocato anche a basket, mi piaceva il basket perché mio papà era una colonna della squadra di pallacanestro del San Lorenzo".

Lo sport è anche festa e celebrazione. Una sorta di liturgia, di ritualità, di appartenenza. Non per nulla si parla di "fede sportiva".
"Lo sport è tutto ciò che abbiamo detto: fatica, motivazione, sviluppo della società, assimilazione delle regole. E poi è divertimento: penso alle coreografie negli stadi di calcio, alle scritte per terra quando passano i ciclisti, agli striscioni d’incitamento quando si svolge una competizione. Trombe, razzi, tamburi: è come se sparisse tutto, il mondo fosse appeso a quell’istante. Lo sport, quando è vissuto bene, è una celebrazione: ci si ritrova, si gioisce, si piange, si sente di "appartenere" a una squadra. "Appartenere" è ammettere che da soli non è così bello vivere, esultare, fare festa. È curioso, poi, che qualcuno leghi la memoria di qualcosa con lo sport: "L’anno in cui la squadra ha vinto lo scudetto, in cui il tal campione ha vinto la tal competizione. L’anno delle Olimpiadi, dei Mondiali". In qualche modo lo sport è esperienza del popolo e delle sue passioni, segna la memoria personale e collettiva. Forse sono proprio questi elementi che ci autorizzano a parlare di 'fede sportiva'".

C’è una pagina dello sport, o un avvenimento, che lei ricorda con piacere?
"Non ho una così grande conoscenza in materia, ma le posso dire che seguo con interesse tutte quelle storie di sport che non sono fini a se stesse, ma provano a lasciare il mondo un po’ migliore di come lo trovano. Quando, durante un viaggio apostolico, sono stato allo Yad Vashem a Gerusalemme, ricordo che mi raccontarono di Gino Bartali, il leggendario ciclista che, reclutato dal cardinale Elia Dalla Costa, con la scusa di allenarsi in bicicletta partiva da Firenze alla volta di Assisi e faceva ritorno con decine di documenti falsi nascosti nel telaio della bici che servivano per far fuggire e quindi salvare gli ebrei. Pedalava per centinaia di chilometri ogni giorno sapendo che, qualora lo avessero fermato, sarebbe stata la sua fine. Così facendo offrì una vita nuova a intere famiglie perseguitate dai nazisti, nascondendo qualcuno di loro anche a casa sua. Si dice che aiutò circa ottocento ebrei, con le loro famiglie, a salvarsi durante la barbarie a cui vennero sottoposti. Diceva che il bene si fa e non si dice, se no che bene è? Lo Yad Vashem lo considera "Giusto tra le nazioni", riconoscendo il suo impegno. Ecco la storia di uno sportivo che ha lasciato il mondo un po’ meglio di come lo ha trovato".

Della dinamica sportiva, come del fatto di vivere, fanno parte la sconfitta e la vittoria.
"Vincere e perdere sono due verbi che sembrano opporsi tra loro: a tutti piace vincere e a nessuno piace perdere. La vittoria contiene un brivido che è persino difficile da descrivere, ma anche la sconfitta ha qualcosa di meraviglioso. Per chi è abituato a vincere, la tentazione di sentirsi invincibili è forte: la vittoria, a volte, può rendere arroganti e condurre a pensarsi arrivati. La sconfitta, invece, favorisce la meditazione: ci si chiede il perché della sconfitta, si fa un esame di coscienza, si analizza il lavoro fatto. Ecco perché, da certe sconfitte, nascono delle bellissime vittorie: perché, individuato lo sbaglio, si accende la sete del riscatto. Mi verrebbe da dire che chi vince non sa che cosa si perde. Non è solo un gioco di parole: chiedetelo ai poveri".

Dietro ogni grande campione c’è un allenatore. Allenare è un po’ come educare?
"In qualche modo sì. Nel momento della vittoria di un atleta non si vede quasi mai il suo allenatore: sul podio non sale, la medaglia non la indossa, le telecamere raramente lo inquadrano. Eppure, senza allenatore, non nasce un campione: occorre qualcuno che scommetta su di lui, che ci investa del tempo, che sappia intravedere possibilità che nemmeno lui immaginerebbe. Che sia un po’ visionario, oserei dire. Non basta, però, allenare il fisico: occorre sapere parlare al cuore, motivare, correggere senza umiliare. Più l’atleta è geniale, più è delicato da trattare: il vero allenatore, il vero educatore sa parlare al cuore di chi nasce fuoriclasse. Poi, nel momento della competizione, saprà farsi da parte: accetterà di dipendere dal suo atleta. Tornerà in caso di sconfitta, per metterci la faccia".

Un sano agonismo può aiutare anche lo spirito a maturare?
"Mi vengono in mente due passaggi scritti da san Paolo nelle sue lettere. Il primo: “Non sapete che, nelle corse allo stadio, tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo" (1 Cor 9,24). È un bellissimo invito a mettersi in gioco, per non guardare il mondo dalla finestra. Il secondo passaggio che vorrei ricordare è quando Paolo, parlando all’amico Filemone, è come se gli confidasse il suo segreto: "Corro perché conquistato" (Fil 3,12). Nessun atleta corre tanto per correre: c’è sempre una qualche bellezza che, come una calamita, attrae a sé chi intraprende una sfida. S’inizia sempre perché c’è qualcosa che ci affascina".

Il cuore è al centro dell’attività sportiva come dell’esperienza religiosa. Tenerlo "allenato" è il segreto per non disperdere il talento?
"Tenere ordinato il cuore è il segreto per qualsiasi vittoria, non solo per quella sportiva: il salmista, infatti, chiede a Dio: "Sia il mio cuore integro" (Sal 119,80). Se guardiamo alla storia del talento, ci accorgiamo che tanta gente di talento si è perduta proprio a causa del disordine. Un cuore ordinato è un cuore felice, in stato di grazia, pronto alla sfida. Penso che se chiedessimo a qualche sportivo il segreto ultimo delle sue vittorie, più di qualcuno ci direbbe che vince perché è felice. La felicità, dunque, è la conseguenza di un cuore ordinato. Una felicità da condividere perché se la tengo per me resta un seme, se invece la condivido può diventare un fiore".

Tanti campioni raccontano di avere iniziato la loro avventura sportiva all’ombra di un campanile, nel "campetto dell’oratorio" di una chiesa di centro città o di estrema periferia.
"La Chiesa ha sempre nutrito grande interesse verso il mondo dello sport. Possiamo dire che nello sport le comunità cristiane hanno individuato una delle grammatiche più comprensibili per parlare ai giovani. Pensiamo a don Bosco e agli oratori salesiani ma pensiamo a tutte le parrocchie del mondo, anche e soprattutto le più povere, nelle quali c’è sempre un campetto a disposizione per giocare e fare sport. Attraverso la pratica sportiva si incoraggia un giovane a dare il meglio di sé, a porsi un obiettivo da raggiungere, a non scoraggiarsi, a collaborare in un gruppo. È un’occasione bellissima per condividere il piacere della vittoria, l’amarezza di una sconfitta, per mettersi insieme e dare il meglio di sé".

Lei, come gesuita, è figlio spirituale e culturale di sant’Ignazio di Loyola, "campione" degli Esercizi Spirituali. "Esercizio" è sinonimo di allenamento. C’è qualche relazione tra lo sport e gli esercizi di sant’Ignazio?
"Quando sant’Ignazio di Loyola ha scritto gli Esercizi Spirituali, l’ha fatto ripensando alla sua storia passata di soldato, fatta di esercizi, addestramenti, allenamenti. Intuisce che anche lo spirito, come il corpo, va allenato. Esercitarsi, poi, richiede una disciplina: gli esercizi sono buoni maestri. Guillaume de Saint-Thierry, un monaco belga vissuto nel XII secolo, dice che “la volontà genera la pratica, la pratica genera l’esercizio e l’esercizio procura le forze per qualsiasi lavoro”. L’esercitazione alla bontà, alla bellezza, alla verità sono delle occasioni in cui l’uomo può scoprire dentro di sé delle risorse inaspettate. Per poi giocarsele".

Qual è il tipo di sportivo che apprezza di più?
"La ringrazio per non farmi fare nomi propri: è sgradevole scegliere uno a scapito di altri. Apprezzo, però, chi è cosciente della responsabilità del suo talento, a qualunque sport o disciplina appartenga. Il "campione" diventa, per forza di cose, un modello d’ispirazione per altri, una sorta di musa ispiratrice, un punto di riferimento. È importante che gli sportivi e i campioni abbiano la consapevolezza di quanto una loro parola, un loro atteggiamento, possa incidere su migliaia di persone. Ci sono aspetti molto belli: penso, e colgo l’occasione per ringraziarli, ai ragazzi della Nazionale Italiana di calcio che ogni anno con il loro Ct passano, letto per letto, a trovare i bambini nell’ospedale del Papa (il Bambino Gesù, n.d.r.), anzitutto nel reparto oncologico. Questo succede anche per altri ospedali e in tante nazioni. Un modo per realizzare i sogni dei piccoli che soffrono. Quando, però, il campione dimentica questa dimensione, perde il bello dell’essere tale, l’occasione per fare in modo che chi lo prende come modello possa migliorarsi, crescere, diventare anche lui campione. Ai campioni auguro di imparare una virtù preziosissima: la temperanza, la capacità di non perdere il senso della misura. Solo così potranno essere testimoni dei grandi valori come l’onestà, la correttezza, la dedizione. Non sono cose da poco".

Il calcio, anzi lo sport, ha recentemente pianto la scomparsa di Maradona, considerato da molti il più grande calciatore di sempre. Che cosa ha rappresentato per la vostra Argentina?
"Ho incontrato Diego Armando Maradona in occasione di una partita per la Pace nel 2014: ricordo con piacere tutto quello che Diego ha fatto per la Scholas Occurrentes, la Fondazione che si occupa dei bisognosi in tutto il mondo. In campo è stato un poeta, un grande campione che ha regalato gioia a milioni di persone, in Argentina come a Napoli. Era anche un uomo molto fragile. Ho un ricordo personale legato al campionato del Mondo del 1986, quello che l’Argentina vinse proprio grazie a Maradona. Mi trovavo a Francoforte, era un momento di difficoltà per me, stavo studiando la lingua e raccogliendo materiale per la mia tesi. Non avevo potuto vedere la finale del Mondiale e seppi soltanto il giorno dopo del successo dell’Argentina sulla Germania, quando una ragazza giapponese scrisse sulla lavagna "Viva l’Argentina" durante una lezione di tedesco. La ricordo, personalmente, come la vittoria della solitudine perché non avevo nessuno con il quale condividere la gioia di quella vittoria sportiva: la solitudine ti fa sentire solo, mentre ciò che rende bella la gioia è poterla condividere. Quando mi è stato detto della morte di Maradona, ho pregato per lui e ho fatto giungere alla famiglia un rosario con qualche parola personale di conforto".

La Città del Vaticano ha una sua squadra di atletica leggera. C’è, poi, la "Clericus Cup", una sorta di campionato per gli studenti degli atenei pontifici. Non è soltanto sport.
"Evangelizzare significa testimoniare, nella vita personale e comunitaria, la vita di Dio in noi, quella che ci è stata donata nel Battesimo. Non esistono strategie, non ha alcun senso un marketing della fede: solo quando un uomo o una donna vede un uomo o una donna vivere come Gesù, allora potrà essere affascinato e potrà iniziare a prendere seriamente la proposta del Vangelo. Si evangelizza con il fascino della propria vita che ha il gusto e il sapore delle beatitudini. Le squadre di atletica leggera e la Clericus Cup trovano il senso della loro presenza in Vaticano proprio per testimoniare uno stile evangelico nello sport. È un modo anche per fare comunità. Penso alla varietà degli atleti che provengono da amministrazioni differenti: guardie svizzere, giardinieri, farmacisti, dipendenti dei Musei Vaticani, delle Ville Pontificie, preti e forse anche qualche monsignore. Una Chiesa in uscita... sui campi sportivi!".

C’è un proverbio arabo che dice: "Non arrenderti. Rischieresti di farlo un’ora prima del miracolo". Proverbio che fede e sport condividono.
"La tua resa è il sogno del tuo avversario: arrenderti è lasciargli la vittoria. È sempre un rischio: "E se avessi resistito un attimo in più?", continuerai a dirti per chissà quante volte vedendo com’è andata a finire. Poi è anche vero che ci sono giorni in cui è meglio continuare a lottare, altri in cui è più saggio lasciare perdere. La vita assomiglia ad una guerra: si può anche perdere una battaglia, ma la guerra quella no! Un uomo non muore quando è sconfitto: muore quando si arrende, quando cessa di combattere. I poveri, da questo punto di vista, sono un esempio spettacolare di che cosa voglia dire non arrendersi. Nemmeno di fronte all’evidenza dell’indifferenza: continuano a combattere per difendere la loro vita".

L’allenamento è la via del perfezionamento. È la base di partenza per superare se stessi. 
"Nessun campione si costruisce in laboratorio. A volte è accaduto, e non possiamo essere certi che non succederà ancora, anche se speriamo di no! Ma il tempo smaschera i talenti originali da quelli costruiti: un campione nasce e si rinforza con l’allenamento. Il doping nello sport non è soltanto un imbroglio, è una scorciatoia che annulla la dignità. Il talento è un dono ricevuto ma questo non basta: tu ci devi lavorare sopra. Allenarsi, allora, sarà prendersi cura del talento, cercare di farlo maturare al massimo delle sue possibilità. Mi vengono in mente coloro che corrono i 100 metri alle Olimpiadi: per quei pochissimi secondi, anni e anni di allenamento, senza le luci accese. Ogni tanto leggo di qualche grande campione che è il primo ad arrivare all’allenamento e l’ultimo ad andarsene: è la testimonianza che la forza di volontà è più forte dell’abilità. Qui lo sport viaggia di pari passo con la vita: la bellezza, qualunque sia la sua declinazione, è sempre il frutto di una fiammella da tenere accesa giorno dopo giorno".

Il motto olimpico "Citius, Altius, Fortius" vale anche per le nostre vite di tutti i giorni?
"Il motto è bellissimo: "Più veloce! Più in alto! Più forte!". Lo attribuiscono al barone Pierre De Coubertin, ma è stato ideato da un predicatore domenicano, Henri Didon. Assieme ai cinque cerchi e alla fiamma olimpica, è uno dei simboli dei Giochi. Non è un invito alla supremazia di una squadra sull’altra, tanto meno una sorta di incitazione al nazionalismo. È un’esortazione per gli atleti, perché tendano a lavorare su se stessi, superando in maniera onesta i loro limiti per costruire qualcosa di grande, senza lasciarsi bloccare da essi. È divenuta una filosofia di vita: l’invito a non accettare che nessuno firmi la vita per noi".

Le prossime Olimpiadi si svolgeranno in Giappone, a Tokyo. Una delle massime giapponesi può essere tradotta così: "Cadi sette volte, rialzati otto". Lei ha visitato il Giappone: che ricordo porta con sé?
"Per due volte ho visitato il Giappone. In questi miei due viaggi ho incontrato una terra meravigliosa, ricca di tradizioni, di fede, di memoria. Alcuni anni prima di intraprendere il secondo viaggio in Giappone, avevo visto una fotografia che mi aveva colpito molto: quella di un bimbo che sta portando in spalla il fratellino morto al crematorio (la foto è del fotografo americano Joe O’Donnell. Il Papa ha incontrato il figlio nel suo secondo viaggio, n.d.r.). L’ho fatta stampare e ho fatto scrivere sopra una frase: "Il frutto della guerra". In quei mesi, alle persone che incontravo, consegnavo la fotografia per non disperdere la memoria dei grandi fallimenti dell’umanità. Quando, nel mio secondo viaggio, mi sono recato, come pellegrino di pace, a Nagasaki e Hiroshima, ho sostato in silenzio di fronte a quella pagina di storia: dei sogni di tantissimi è rimasta solo ombra e silenzio. Gente diversissima unita da un tragico destino. Ho visto, però, anche la speranza in quell’istante: negli occhi di coloro che, sopravvissuti a quella barbarie, hanno trovato il coraggio di continuare a vivere. Nonostante tutto. Con tutto il cuore auguro che le prossime Olimpiadi trovino l’ispirazione in quegli sguardi che non si sono mai arresi".

Delle Olimpiadi sono parte integrante le Paralimpiadi, una delle forme più alte di uguaglianza, dignità, rispetto. Mesi fa, attraverso il nostro giornale ha rivolto un pensiero ad Alex Zanardi. È parso chiarissimo il suo intento: parlare a lui per parlare all’immenso popolo che si ritrova in quella storia personale.
"Quando vedo di che cosa sono capaci certi atleti, che portano impressa nel loro fisico qualche disabilità, rimango sbalordito dalla forza della vita. Dello sport mi piace l’idea di inclusione, quei cinque cerchi che si inanellano tra loro finendo per sovrapporsi: è un’immagine splendida di come potrebbe essere il mondo. Il movimento paralimpico è preziosissimo: non solo per includere tutti, ma anche perché è l’occasione per raccontare e dare diritto di cittadinanza nei media a storie di uomini e donne che hanno fatto della disabilità l’arma di riscatto. Quando vedo o leggo di qualche loro impresa, penso che il limite non sia dentro di loro ma soltanto negli occhi di chi li guarda. Sono storie che fanno nascere storie, quando tutti pensano che non ci sia più nessuna storia da raccontare".

Lei è un grande appassionato di calcio: da piccolo tifava per il San Lorenzo. Lo sport, però, non è solo calcio.
"Sappiamo che in ogni angolo del mondo, anche in quello più nascosto e più povero, basta una palla e tutto comincia a popolarsi e a sorridere. Forse per questo il calcio fa un po’ la parte del leone. Un po’ come accade a casa tra fratelli: ce n’è sempre uno che pensa di valere più degli altri! Ma certo il mondo dello sport è una vera e propria costellazione con tante stelle. Io ho giocato anche a basket e mi sta molto simpatico, ad esempio, il rugby: pure essendo uno sport da duri, non è mai violento. La lealtà e il rispetto che ci sono in questo sport spesso vengono presi come modello di comportamento. Penso al "terzo tempo" dopo la partita: tutti i giocatori delle due squadre si riuniscono anche solo per un saluto, una stretta di mano. È così che dovrebbe essere: dare l’anima quando si gioca ma, terminata la gara, avere il coraggio di stringere la mano all’avversario. Non è stata una guerra tra nemici, solo un’occasione di competizione tra avversari nel gioco. Quelli che vengono considerati sport minori, certe volte, potrebbero fare delle "lezioni di ripetizione" al signor-calcio".

C’è un grande business che ruota attorno a questo pianeta meraviglioso che è lo sport. Come riuscire a salvare la bellezza della pratica sportiva senza farle perdere l’anima?
"L’atleta è un mistero affascinante, un capolavoro di grazia, di passione. È facilissimo però trasformarlo in un oggetto, una mercanzia che genera il profitto. Nell’ultima enciclica, "Fratelli Tutti", ho voluto precisare che il mercato, da solo, non risolve tutto anche se la cultura di oggi sembra volerci far credere a tutti i costi a questo dogma di fede neoliberale. Questo accade quando il valore economico detta legge, nello sport come in tanti altri settori della nostra vita. La ricchezza, il guadagno facile, rischiano di far addormentare la passione che ha trasformato un ragazzo qualunque in un fiore all’occhiello. Personalmente credo che un po’ di "fame" in tasca sia il segreto per non sentirsi mai appagati, per tenere accesa quella passione che, da bambini, li ha affascinati. È triste vedere campioni ricchissimi ma svogliati, quasi dei burocrati del loro sport: facciamo di tutto perché sia salva la dimensione amatoriale dello sport. Abbiamo visto nei mesi scorsi come la pandemia abbia evidenziato che non tutto si risolva con la libertà di mercato".

Ha mai pensato a un’enciclica sullo sport? 
"Apertamente no ma, per esempio, tanti elementi si possono ritrovare nell’enciclica Fratelli Tutti. Per esempio il capitolo quinto offre spunti per riflettere attorno all’imponente mondo economico che gira attorno allo sport ma suggerisce, anche, come lo sport possa aiutare o almeno possa dare il proprio contributo alla globalizzazione dei diritti. Ma forse anche questa nostra conversazione può definirsi l’avvio di una enciclica sullo sport. Vedremo cosa il buon Dio suggerirà nel prosieguo del pontificato! Una cosa, però, possiamo già condividerla. Ogni quattro anni ci sono le Olimpiadi, con la loro Carta Olimpica. Proprio le Olimpiadi possono fungere da faro per i naviganti: la persona al centro, l’uomo teso al suo sviluppo, la difesa della dignità di qualunque persona. E la parte più bella: "Contribuire alla costruzione di un mondo migliore, senza guerre e tensioni, educando i giovani attraverso lo sport praticato senza discriminazioni di alcun genere, in uno spirito di amicizia e di lealtà". È già stato scritto tutto: viviamolo!".

Il santo è il campione della fede. Santi, come campioni, non si nasce, si diventa. Qual è il suo segreto per competere nel campionato della santità?
"Restando nel linguaggio sportivo che lei continua a suggerirmi in questa conversazione, per me il segreto per desiderare e per vivere la santità è quello di mettersi in gioco. Infatti che cosa fa un giocatore quando è convocato per una partita o un atleta prima di partecipare ad una gara? Si deve allenare, allenare e ancora allenare. Ad ognuno Dio ha dato un campo, un pezzo di terra nel quale giocarsi la vita: senza allenamento, però, anche il più talentuoso rimane una schiappa, si dice così? Ecco: per me allenarmi – e anche un Papa si deve sempre tenere in allenamento! – è chiedere ogni giorno a Dio "Che cosa vuoi che faccia, che cosa vuoi della mia vita?". Domandare a Gesù, confrontarsi con Lui come con un allenatore. E se si fa uno scivolone, nessuna paura: a bordo campo c’è Lui che è pronto a rimetterci in piedi. Basta non aver paura di rialzarsi".

Michael Jordan, uno dei più grandi cestisti di tutti i tempi, disse che "se ci si arrende una volta, diventa un’abitudine. Mai arrendersi". Santità: come fa lei a non arrendersi mai?
"Prego. Ho bisogno di sapere che gioco in una squadra dove il Capitano ha il diritto di avere l’ultima parola: prego per sapere intercettare al meglio le parole che Lui mi suggerisce, per offrirle al popolo, che non è mai una semplice parola o una categoria sociologica. Popolo è anzi tutto una chiamata, un invito a uscire dall’isolamento e dall’interesse proprio per rovesciarsi nell’ampio letto di un fiume che, avanzando, dà vita al territorio che attraversa. E poi mi tengo i poveri vicino: quando viene la sera, penso a tutti i poveri che dormono attorno al Colonnato di Piazza San Pietro: la loro resistenza è la mia ispirazione, la loro presenza è la mia protezione. Penso a loro e non mi sento mai solo: dentro quella carne fragile e ferita, Dio si nasconde, anzi si manifesta, per suggerirmi lo schema di gioco vincente. E mi fido di Lui: Lui non si arrenderà mai, nemmeno di fronte alla mia fragilità".

Questo è il primo numero della Gazzetta del 2021. Qual è l’augurio di Papa Francesco per l’umanità in questo inizio d’anno?
"Il mio augurio è molto semplice, lo dico con le parole che hanno scritto su una maglietta che mi è stata regalata: "Meglio una sconfitta pulita che una vittoria sporca". Lo auguro a tutto il mondo, non solo a quello dello sport. È la maniera più bella per giocarsi la vita a testa alta. Che Dio ci doni giorni santi. Pregate per me, per favore: perché non smetta di allenarmi con Dio!".

Fonte Gazzetta dello sport in collaborazione con don Marco Pozza

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